#08 : Distese Larghe e Lunghe

Sono certo che quando nel post precedente avete letto “paesaggi lunari” avete storto il naso pensando “Sarà di certo un’esagerazione di quell’esageratone di Lorro”.
Scettici che non siete altro.
Si dà però il caso che in quel caso non si trattasse di un’iperbole ma del reale stato delle cose.
Favorisco qua sotto un aiuto visivo:

ba-boom

Dopo la nostra visita ai bucolici dintorni di Mývatn abbiamo iniziato a salire di quota, questa volta non per scalare e superare una cima ma per raggiungere il cuore vero dell’Islanda, le highlands.
Con highlands si intende il grosso del territorio islandese, tutto l’entroterra dell’isola è di fatto una sorta di deserto vulcanico con elevazioni che vanno mediamente dai quattrocento ai cinquecento metri; la vegetazione è quasi del tutto assente se non per qualche zona in prossimità dell’acqua macchiata da tappeti di erba fine e bassa.
Sembra che abbia copiato tutto dalla pagina di Wikipedia ma abbiamo toccato con mano la cosa e vi posso garantire che ormai conosciamo le highlands come le nostre tasche, hashtag forse.

Sio ride, inconsapevole di ciò che gli sta per succedere

Prima di iniziare a salire verso le nere piane vulcaniche inciampiamo anche in un fenomeno partenopeo che, purtroppo, non è la pizza.
A qualche chilometro da Dimmuborgir (le scuse per scrivere questo nome non sono mai abbastanza) la terra diventa quasi completamente spoglia e si inizia ad avvertire nell’aria un distinto odore di uova. Tutto intorno si alzando compatte colonne di fumo bianco.
È una zona di solfatare e geyser, la terra giallastra si apre in pozze di fango ribollente poco adatto a bagni ricostituenti. La terra e la roccia sono infatti disciolte in pozze nere di soluzione fortemente acida, tenuta costantemente in movimento dalla pressione sottostante.
Non perdiamo l’occasione per farci foto idiote che non mostrano nulla del paesaggio e ci divertiamo in maniera rumorosa.
Confermiamo di essere i turisti che non vorreste mai incontrare.

inalando vapore profumato

La giornata fino a quel punto soleggiata decide di farsi nuvolosa, forse per accompagnare il cambio di panorama: il terreno chiaro inizia a lasciare il posto a scura roccia vulcanica, questo unito all’erba rossastra che cresce a chiazze fa sembrare il paesaggio arrugginito.
Salendo ulteriormente ci si trova definitivamente sulla luna: le piante scompaiono del tutto, il suolo poroso assorbe le precipitazioni troppo velocemente per permettere a qualsiasi cosa di crescere.
È una distesa nera interrotta soltanto da qualche occasionale duna e dalle cime appuntite all’orizzonte.
La strada diventa perfettamente pianeggiante. Siamo intorno ai cinquecento metri.

Pedaliamo di buona lena fino che le gambe e la voglia ce lo permettono, ci fermiamo in corrispondenza di una conca attraversata da un piccolo corso d’acqua lungo le cui sponde dell’erba è riuscita a farsi coraggio.
Piantiamo la tenda dietro una stalla che pare avere ospitato altri viaggiatori prima di noi; troviamo l’erba già schiacciata dalla forma familiare di una tenda e tutt’intorno le tracce di campeggiatori meno educati di noi. Se il proprietario della stalla dovesse mai leggere queste righe: sappi che le cartacce non erano nostre! E grazie per il riparo!
(siamo viaggiatori COSÌ giudiziosi)

NIENTE CARTACCE NOSTRE, AVETE VISTO TUTTI

Dormiamo completamente vestiti, a quelle altezze il freddo durante la breve notte può farsi veramente pungente.
Pensiamo anche di dare fuoco a Nick per scaldarci ma poi realizziamo che è più saggio continuare a portarcelo dietro per poterlo eventualmente usare come cibo di emergenza. Rimane il dubbio riguardo al sapore ma abbiamo della salsa hamburger per ovviare al problema, casomai dovesse servire.
Quando ci svegliamo la coltre di nuvole si sta aprendo lasciando passare qualche timido raggio di sole; passiamo tutta la giornata a pedalare su di una strada che sembra essere stata disposta con la livella. Quando le punte che prima formavano l’orizzonte iniziano ad avvicinarsi ci ricordiamo di essere in quota: la strada inizia a scendere verso valle in maniera piuttosto decisa. Un cartello ci avverte che la pendenza è del 10%.

Ringrazio mentalmente di avere le pastiglie dei freni in perfetta forma e mi appresto a iniziare la discesa con la grazia e la sicurezza di un ciclista provetto: mi tengo esattamente a metà della strada rompendo le palle alle auto provenienti da entrambe le direzioni.
Scendo a trenta chilometri all’ora nonostante tenga i freni tirati praticamente sempre. In un paio di momenti in cui mi sento particolarmente spavaldo mi riavvicino al guard rail, ma nel momento in cui vedo lo strapiombo alla mia destra torno prontamente a ostacolare il traffico islandese fregandomene di tutto. Non sono strade per ciclisti che soffrono di vertigini.

la discesa non si vede perché eravamo troppo impegnati a frenare tantissimo

Sono gli otto chilometri più veloci e più terrificanti (dal mio sfigatissimo punto di vista) dal momento della partenza. Fortunatamente appena arrivati alla base troviamo un campeggio provvisto di tutto ciò che può servire: docce calde, una tavola calda, elettricità, caffè infinito e una sorta di struttura piramidale di legno piena di ossa e pelli di renne. Assolutamente non inquietante.
Ci riposiamo pronti all’ultima spinta prima della prossima cittadina: Egilsstaðir.